Tempo di uccidere
Il grande romanzo di Ennio Flaiano
20
NOVEMBRE 2022
Ennio Flaiano
Tempo di uccidere
50° anniversario
A cinquant’anni dalla scomparsa di Ennio Flaiano, avvenuta a Roma il 20 novembre 1972, vogliamo unirci al ricordo collettivo di uno degli autori abruzzesi più famosi nel mondo. Pescarese di nascita e romano d’adozione, Flaiano nasce il 5 marzo 1910 in una casa in corso Gabriele Manthonè a Pescara. Ultimo di sette figli, trascorre l’infanzia spostandosi frequentemente con tutta la sua famiglia tra l’Abruzzo, il Lazio e le Marche, salvo poi trasferirsi a Roma nel 1922.
Nonostante il trasferimento in giovanissima età, Flaiano manifesterà per tutta la sua vita un profondo attaccamento per la sua terra natia come emerge da questi frammenti di una sua lettera indirizzata all’amico Pasquale Scarpitti.
Adesso che mi ci fai pensare, mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese e debbo dire, ahimè, tutto; cioè l’orgoglio di esserlo, che mi riviene in gola quando meno me l’aspetto […] e questo ti dice che non sono nato a Pescara per caso: c’era nato anche mio padre e mia madre veniva da Cappelle sul Tavo. I nonni paterni e materni anch’essi del teramano, mia madre era fiera del paese di sua madre, Montepagano, che io ho visto una sola volta di sfuggita, in automobile, come facciamo noi, poveri viaggiatori d’oggi.
Pasquale Scarpitti, Disincanto, Sarus, Teramo, 1972
Sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, paroliere, critico cinematografico e drammaturgo, Flaiano è stato un autore complessissimo e sfaccettato, il cui nome oggi è ingiustamente poco conosciuto o accostato solamente a quello di Federico Fellini, essendo stato per tanti anni collaboratore alla sceneggiatura nelle pellicole del regista romagnolo.
Dai soggetti e dalle sceneggiature dell’autore pescarese sono stati tratti: I vitelloni (1953), La dolce vita (1960) e 8½ (1963), forse i tre grandi capolavori del Maestro Fellini. A seguito del 1965 il loro rapporto di collaborazione si interruppe bruscamente a causa dei numerosi diverbi tra i due. Nelle pellicole successive di Fellini questo cambio drastico di registro sarà molto evidente e forse sarà questo uno dei motivi della parabola discendente della sua carriera negli ultimi anni di attività.
Frame tratto da I vitelloni (1953) di Federico Fellini
Dato per certo l’inequivocabile posto che Flaiano occupa, allora come oggi, nel pantheon del cinema italiano, ciò che molti ignorano della vita e della carriera artistica di Ennio Flaiano è la sua parentesi da romanziere, ed è proprio di questa che vogliamo parlare con questo ricordo dell’autore.
Flaiano scrisse un solo, grande romanzo su commissione per Leo Longanesi nel 1947: Tempo di uccidere. Il libro, duramente osteggiato dalla critica dell’epoca, vinse il primo Premio Strega, indetto proprio quell’anno dalla scrittrice Maria Bellonci e da Guido Alberti, facoltoso proprietario della società produttrice del liquore Strega che dà il nome al Premio.
1947. Gli “Amici della domenica” prendono parte al 1° Premio Strega.
A destra Ennio Flaiano © Premio Strega, Fondazione Bellonci
Tempo di uccidere è un romanzo scritto di getto, ambientato durante gli anni di occupazione dell’esercito regio italiano in Etiopia. Lo stesso Flaiano nell’autunno del 1935 era stato chiamato alle armi e imbarcato per l’etiopia con il grado di sottotenente, per partecipare alle ambizioni imperialiste del Regno d’Italia e in particolare dell’all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli Affari Esteri Benito Mussolini.
La trama del romanzo prende dunque spunto dalle riflessioni e dagli incontri di Flaiano stesso durante i mesi di stanza in Etiopia, salvo poi distaccarsene completamente nella parte più romanzata della vicenda.
Nel bel mezzo della guerra d’occupazione italiana in Etiopia, un tenente in licenza temporanea rischia la morte a seguito del ribaltamento del camion che lo sta trasportando nel villaggio più vicino al suo accampamento. Tramortito dall’incidente decide di proseguire a piedi tra i sentieri e le scorciatoie della foresta etiope e d’un tratto, ormai perso nella boscaglia, incontra una donna “indigena” immersa in uno stagno intenta a lavare il proprio corpo nudo.
Accecato dalla voglia e dal suo senso di superiorità in quanto occupante e dunque usurpatore e dominatore, il tenente violenta la donna. Nel buio dell’oscurità della notte africana il tenente spara con la sua rivoltella verso la boscaglia per far fuggire una bestia selvatica, ma un proiettile viene deviato da una pietra e ferisce a morte la ragazza che giace ancora di fianco a lui. Il tenente, per non incorrere in un processo militare ne nasconde il cadavere. Inizia da qui il suo calvario, un viaggio tra le steppe africane occupate da anime in pena; un cammino fatto di dubbi, incertezze, dolore, paranoie e rimorso.
Il romanzo si allontana dalla linea neorealista preponderante all’epoca e confeziona una storia struggente, stralunata, un dramma dell’inconscio, un fiume in piena di pensieri, un flusso di coscienza al limite del surrealismo. Cifra stilistica questa, che si riscontra in tutte le sceneggiature di Flaiano.
Così come Louis-Ferdinand Céline in Viaggio al termine della notte racconta il primo conflitto mondiale con cinismo e disperazione, in Tempo di uccidere Flaiano ci mostra, attraverso gli occhi smarriti di un ingenuo colonizzatore che combatte la propria guerra interiore, la vera guerra d’Etiopia; quell’oscuro e ben presto dimenticato passaggio della storia dove noi italiani fummo dei crudeli occupanti e che con ogni mezzo provammo a soggiogare un intero popolo.
Nel 1989 Giuliano Montaldo (Sacco e Vanzetti) realizza una trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Flaiano con Ricky Tognazzi, Giancarlo Giannini e con Nicolas Cage nel ruolo del tenente. Il film, una coproduzione italo-francese fu distribuita in Italia dalla Titanus e le musiche furono affidate al Maestro Morricone.
La pellicola trae ispirazione dai famosi film di guerra americani del periodo come Full Metal Jacket o Platoon e così come loro, anche la pellicola di Montaldo non si concentra sul conflitto bellico in sé, bensì sul conflitto interno del protagonista. Il tenente Enrico Silvestri (qui viene dato un nome e un cognome al protagonista, diversamente dal romanzo di Flaiano che vuole lasciare innominato il tenente proprio per renderlo un emblema universale) compie un viaggio all’interno delle foreste montane dell’Etiopia; un viaggio che si fa metafora della colpa e dell’espiazione attraverso una malattia che il tenente contrarrà durante il suo vagabondaggio. I primissimi piani sul protagonista enfatizzano la perdita della ragione di fronte alle proprie azioni e all’ insensatezza della guerra.
Nonostante i nomi altisonanti e un’azzeccata interpretazione sopra le righe di Nicolas Cage, il film non ebbe particolare successo in sé e sicuramente non ebbe la stessa rilevanza che ebbe e che ha tuttora il romanzo del 1947.
Frame di Tempo di uccidere, diretto da Giuliano Montaldo con Nicolas Cage
Ennio Flaiano, che la sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico definì un uomo silenzioso, attento all’ascolto e ambiziosissimo, per qualche ragione non tentò mai più la strada del romanzo. Nonostante Tempo di uccidere sia un unicum non c’è dubbio che resta uno dei grandi romanzi del secolo scorso, destinato ad acquisire sempre più valore all’aumentare della consapevolezza e della riscoperta, magari alla luce dei tristi eventi recenti, di un passato triste, fatto di violenza e sopraffazione in cui il popolo italiano non fu solo vittima, ma anche aggressore.
Ennio Flaiano merita di fatto un posto da protagonista nella letteratura italiana assieme agli altri grandi scrittori abruzzesi della letteratura del ‘900 come Ignazio Silone e Gabriele D’Annunzio. Flaiano, oggi più che mai, è un autore che necessita di uscire dalla definizione troppo semplicistica dello “sceneggiatore di Fellini” ed ergersi ad autore a tutto tondo, autore che ha influenzato l’immaginario e forse anche la definizione stessa di tutta una generazione di italiani, di un tempo scanzonato, trasognante e allo stesso tempo tristemente consapevole di un meccanismo inceppato. Un uomo con un oscuro peso nel cuore che però si ostina ad andare avanti fischiettando.
Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora “nu cristiane”), la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come miei, anzi nei loro difetti i miei.
Pasquale Scarpitti, Disincanto, Sarus, Teramo, 1972
Samuele Coccione
Esule per necessità, ma soprattutto per masochismo.
Amo il cinema, i libri e la noia.
Scrivo di cinema abruzzese da quando era “figo”
essere costretti a rimanere in casa.
Vivo a Milano, ma sogno lo smart working con i piedi in ammollo sul Tirino.